La cultura pop è ancora pop?
Un movimento per tutti, diventato elitario
La cultura pop (popolare), un tempo simbolo di accessibilità e appartenenza collettiva, sembra oggi essere diventata un lusso per pochi. Nata nel dopoguerra come espressione del gusto delle masse e forma di intrattenimento alla portata di tutti, la cultura pop si è affermata proprio grazie alla sua capacità di unire mondi diversi: musica, cinema, fumetti, televisione, moda, videogiochi.
Negli anni ’60 e ’70 il termine “pop” evocava leggerezza, ironia e democrazia culturale, il pop era ciò che chiunque poteva capire, imitare, vivere. Era il fumetto da edicola, il disco in vinile economico, il cinema di quartiere, la TV generalista che entrava in ogni casa. Con il tempo, però, ciò che era nato per essere accessibile si è progressivamente trasformato in industria globale, governata da logiche di mercato sempre più aggressive.
L’idea di “popolare” è stata sostituita da quella di “mainstream”, un flusso continuo di prodotti e franchise capaci di raggiungere milioni di persone, ma non necessariamente di includerle davvero. Oggi partecipare al mondo pop, che si tratti di seguire una serie, collezionare una saga di fumetti o andare a un evento, richiede risorse economiche, tempo e un certo grado di appartenenza culturale. La cultura pop è visibile ovunque, ma non più per tutti.
Il costo dell’appartenenza e la trasformazione del fandom
Partecipare oggi alla cultura pop, infatti, richiede un investimento sempre più alto, non solo economico ma anche sociale. Biglietti per concerti o eventi diventati inaccessibili, abbonamenti a piattaforme streaming che si moltiplicano, edizioni limitate che spariscono in pochi minuti, gadget e collezionabili dai prezzi vertiginosi. Essere fan è diventato un privilegio costoso. La promessa di “esperienze esclusive” sembra, quindi, aver sostituito la condivisione genuina, trasformando la passione in un prodotto premium.
Questa dinamica crea una barriera invisibile ma concreta, che separa chi può permettersi di vivere pienamente il proprio entusiasmo da chi resta ai margini, costretto a guardare da fuori. La cultura pop, che un tempo univa, oggi divide tra chi “c’è” e chi non può esserci. Anche la partecipazione digitale, un tempo alternativa economica, è ormai filtrata da paywall, algoritmi e contenuti a pagamento.
Parallelamente, il concetto stesso di fandom è cambiato. Da comunità spontanee di appassionati unite dalla creatività e dallo scambio, i fandom sono diventati micro-mercati attentamente osservati e sfruttati dalle grandi aziende. L’engagement non è più un atto di partecipazione, ma un valore economico da monetizzare. Like, preordini e trend sembrano esser diventati le nuove unità di misura della passione.
L’hype, una volta manifestazione di entusiasmo collettivo, è ora una strategia di marketing. E l’identità del fan, costruita su passione, appartenenza e immaginazione, rischia di ridursi a quella di consumatore fedele. Ciò solleva una domanda inevitabile: quanto resta di autentico nell’amore per qualcosa, quando ogni gesto di partecipazione è anche un atto di acquisto?
La disillusione del “grande evento”
Il dibattito sull’accessibilità della cultura pop ha trovato un riflesso concreto nelle polemiche che stanno accompagnando la prossima edizione di Lucca Comics & Games, la più importante manifestazione italiana dedicata al fumetto, al gioco e alla cultura geek. Un tempo simbolo di condivisione e incontro, oggi Lucca rappresenta anche l’emblema delle contraddizioni del mondo pop contemporaneo: entusiasmo e passione da un lato, costi e logiche commerciali dall’altro.
La decisione di DZ Edizioni di disertare l’edizione 2025 ha acceso i riflettori su un malessere diffuso tra editori, autori e pubblico. L’editore ha denunciato non solo l’aumento dei costi degli spazi espositivi, ma anche la sensazione di una crescente distanza tra organizzazione e partecipanti. Meno attenzione alle persone, più alla rendita economica. In un comunicato, DZ ha parlato della necessità di “condizioni più rispettose per tutti”, sottolineando come l’esperienza lucchese sia diventata difficile da sostenere, soprattutto per le realtà medio-piccole.
Questa presa di posizione ha trovato eco tra molti appassionati, che da tempo percepiscono un cambiamento nell’anima dell’evento. Lucca non è più soltanto una festa della cultura popolare, ma un meccanismo complesso, in cui la partecipazione sembra misurarsi in base a ciò che si spende. Quella che era una celebrazione collettiva rischia di trasformarsi in una vetrina in cui il “pop” sopravvive come estetica, ma non più come spirito. La cultura pop è ancora davvero popolare, o è diventata un marchio di lusso con travestimento di massa?
Il caso Hara
Le critiche si sono amplificate con l’annuncio di Tetsuo Hara, autore di Ken il Guerriero, il cui arrivo a Lucca 2025 è stato accompagnato da un listino per “incontri privati” da 1.750 a 12.600 euro.
I pacchetti proposti includono non solo foto e firma, ma anche l’acquisto di stampe o opere d’arte di pregio (giclée, metal art, edizioni limitate). Secondo la versione fornita da Lucca Comics e da Panini, gli incontri pubblici con Hara restano inclusi nel biglietto della fiera. In parole povere, chi acquista l’ingresso giornaliero e prenota il posto potrà comunque assistere ai panel gratuiti.
Le tariffe “VIP”, invece, non sono imposte o gestite direttamente dalla fiera, ma risultano da un’offerta di Coamix nel catalogo dell’evento, che associa il privilegio dell’incontro all’acquisto di opere di alto valore. Tuttavia, questa distinzione formale — “incontro pubblico incluso vs pacchetti esclusivi a prezzo elevato” — non ha spento l’indignazione. Molti fan hanno sollevato questioni etiche: è lecito che chi può permetterselo acceda a esperienze “di élite”, mentre chi non ha risorse resti relegato alle “briciole” dell’evento?
Alcuni hanno parlato di distinzione tra fan di “serie A” e fan di “serie B”, imputando all’organizzazione una svolta elitista. Resta comunque il fatto che, con proposte del genere, la casa editrice sottolinea come i tempi in cui si facevano lunghe file per un incontro gratuito con gli autori, per una firma ed una stretta di mano, si stiano inesorabilmente allontanando.
Il culto dell’oggetto e l’economia del desiderio
Se un tempo bastava amare una storia o un personaggio, oggi sembra necessario possederlo. Il merchandising è, difatti, diventato il cuore pulsante della cultura pop contemporanea, un’economia parallela che trasforma l’emozione in prodotto tangibile. Action figure, abiti brandizzati, gadget, edizioni limitate e collaborazioni con marchi di lusso hanno ridefinito la relazione tra fan e opera, non più mediata solo dall’affetto o dalla curiosità, ma, ancora una volta, dall’acquisto.
Il possesso è diventato una forma di identità. Mostrare ciò che si colleziona significa affermare chi si è, o chi si vuole essere, all’interno della comunità. Questa nuova “economia del desiderio” ha, però, un prezzo: l’oggetto, spesso raro o costoso, diventa il simbolo di un’appartenenza esclusiva. Il collezionismo, che nasceva come gesto d’amore verso le opere, si sta trasformando in una corsa al prestigio.
L’industria ha imparato a sfruttare perfettamente questa dinamica, costruendo la promozione attorno alla scarsità. Ogni edizione limitata è pensata per generare urgenza, ogni collaborazione per stimolare il senso di mancanza. Così, ancora una volta, la passione si confonde con il consumo, e la cultura pop diventa un sistema in cui emozione e marketing si fondono fino a diventare indistinguibili.
Appassionata di scrittura ed innamorata della cultura giapponese, trovo ispirazione sia nei racconti in cui mi immergo sia nei videogiochi che esploro. Attraverso manga, anime e la ricca tradizione artistica del Giappone, coltivo la mia creatività e la mia curiosità per mondi nuovi e avvincenti.




