Il Giappone in fiamme, caos, potere e rinascita nel Periodo Sengoku

Periodo Sengoku - lotte
C’è un momento nella storia giapponese in cui il Paese smette di essere un’unità e si trasforma in una miriade di piccoli mondi in guerra.

È il Periodo Sengoku, letteralmente “l’epoca degli Stati combattenti”, un secolo e mezzo di sangue, ambizione e rinascita che ha definito l’anima stessa del Giappone. Tra il 1467 e il 1615, le antiche certezze del feudalesimo crollano, i samurai si moltiplicano come signori della guerra e il potere centrale svanisce in una spirale di battaglie, tradimenti e alleanze. Dentro quel caos, però, prese forma qualcosa di nuovo, un’idea del Giappone moderna, disciplinata e unificata, destinata a dominare i secoli successivi.

Per capire il Sengoku bisogna tornare indietro, al periodo Muromachi (1336–1573), un’epoca dominata dallo shogunato Ashikaga, una dinastia militare che, rispetto ai precedenti Kamakura, aveva un controllo più fragile sul Paese. All’inizio, la corte di Kyōto cercava di bilanciare i poteri locali attraverso alleanze con i grandi clan, ma nel tempo questi stessi clan cominciarono a governare le proprie province in modo sempre più autonomo.

La Guerra Ōnin (1467–1477) fu la scintilla che fece esplodere tutto. Nata come disputa per la successione dello shogun, degenerò in una guerra civile che distrusse Kyōto e dissolse l’autorità centrale. Alla fine, non c’era più un vero governo, ma solo centinaia di signori feudali, o daimyō, che combattevano per il controllo del territorio. Era, così, iniziato il Sengoku Jidai, “il tempo dei Paesi in guerra”.


Politica e strategia nel caos


Durante il Sengoku, il Giappone cessò di essere una nazione unificata e divenne un mosaico di domini in costante conflitto. Ogni provincia si trasformò in una piccola roccaforte, governata da un daimyō, signore feudale che esercitava il potere assoluto sui propri territori e sui vassalli che lo servivano. I castelli, spesso costruiti in posizioni strategiche su colline o lungo i fiumi, erano il cuore pulsante di queste micro-signorie, simboli di potenza ma anche centri amministrativi e militari.

L’equilibrio era precario e la legge del più forte regnava sovrana. L’obiettivo di ogni daimyō era semplice e spietato: sopravvivere e conquistare, assicurandosi nuove terre, alleati e risorse. In un’epoca senza un’autorità centrale stabile, la guerra divenne non solo inevitabile, ma necessaria per la sopravvivenza politica.

In questo clima di caos controllato emersero figure di straordinaria intelligenza strategica. Il campo di battaglia divenne un laboratorio di innovazione militare, in cui i comandanti sperimentavano nuove tattiche, organizzavano armate sempre più vaste e perfezionavano la logistica. Le tradizionali cariche di cavalleria lasciarono spazio a formazioni più disciplinate e coordinate, mentre i generali più brillanti imparavano a sfruttare il terreno, la velocità e la sorpresa.

Periodo Sengoku

Inoltre, l’arrivo dei portoghesi nel 1543 cambiò per sempre il volto della guerra. Le armi da fuoco, inizialmente curiosità esotiche, vennero adattate con rapidità e ingegno. I giapponesi perfezionarono la produzione degli archibugi, introducendo miglioramenti tecnici e strategie d’impiego che ne resero devastante l’efficacia. L’esercito di Oda Nobunaga, ad esempio, fu tra i primi al mondo a utilizzare linee di tiro alternate, una tattica che permetteva di mantenere un fuoco costante e che avrebbe rivoluzionato il modo di combattere.

La guerra del Sengoku, però, non si combatteva solo con le spade o le armi, era, infatti, anche una partita di diplomazia e inganni. Le alleanze cambiavano con la rapidità del vento: un giorno si combatteva al fianco di un clan, il giorno dopo contro di esso. Trattative segrete, matrimoni politici e giuramenti infranti erano la norma. I daimyō più abili sapevano che vincere una guerra significava, spesso, saperla evitare.

In questo scenario ambiguo, la parola “onore” assunse sfumature contraddittorie. Il codice del bushidō, che esaltava la lealtà e la rettitudine del samurai, coesisteva con la spietata logica del potere. Essere fedeli al proprio signore significava rischiare la rovina, ma tradirlo poteva garantire la sopravvivenza. Così il Sengoku divenne una danza di fedeltà e tradimenti, in cui l’ideale del guerriero nobile conviveva con la realtà di un mondo senza certezze.


Samurai, contadini e monaci guerrieri


Il Sengoku non fu solo un conflitto tra nobili, ma una vera rivoluzione sociale. I samurai, un tempo esclusivamente servitori di corte e custodi dell’onore dei loro signori, divennero padroni del proprio destino. Guerrieri e governanti insieme, responsabili delle terre che controllavano, delle tasse da riscuotere e delle truppe da mantenere. Il loro ruolo si ampliò fino a comprendere la politica, l’amministrazione e la gestione economica, creando un’élite armata autonoma, ma legata ai propri daimyō da vincoli di fedeltà spesso, come già detto, fragili e mutevoli.

Anche i contadini cominciarono a organizzarsi in milizie autonome, le ikki, nate per proteggersi da soprusi e da signori troppo avidi o predatori. Queste comunità armate riuscirono talvolta a conquistare un certo grado di autonomia, gestendo governi locali e persino influenzando la politica provinciale. Inoltre, in alcune regioni, come Ise o Kaga, le ikki fondarono vere e proprie repubbliche rurali, basate sulla cooperazione tra agricoltori e cittadini armati, un fenomeno eccezionale in un Giappone feudale tradizionalmente gerarchico.

Parallelamente, i monaci guerrieri, o sōhei, esercitavano un potere militare significativo. Templi come l’Enryaku-ji, sul monte Hiei, non erano solo luoghi di culto, ma fortezze armate, capaci di schierare migliaia di combattenti. Dunque, questi monasteri diventavano centri di influenza politica, e il loro potere militare attirò inevitabilmente l’attenzione dei daimyō più ambiziosi, fino a sfociare in conflitti sanguinosi. Oda Nobunaga, nel suo percorso di unificazione, ordinò la distruzione di Enryaku-ji nel 1571, segnando una svolta definitiva nella lotta tra potere religioso e militare.

Il risultato di questo intreccio di forze fu un mondo in cui tutti combattevano: samurai, contadini, monaci, mercanti armati, talvolta persino gli artigiani. La guerra permeava ogni aspetto della vita quotidiana, non era solo politica, ma il modo stesso in cui il Giappone respirava, sopravviveva e si ridefiniva. L’equilibrio sociale si ridefiniva costantemente tra violenza e alleanze, creando un terreno fertile per nuove strutture di potere e, allo stesso tempo, per la nascita di figure leggendarie, che avrebbero plasmato l’immaginario del Giappone fino ai giorni nostri.


Voci dal margine


Periodo SengokuIn mezzo al frastuono delle battaglie e al clangore delle spade, ci furono anche voci dimenticate. Il Sengoku non fu solo un’epoca di uomini e di guerra, ma fu anche un momento in cui molte donne emersero come figure di potere, intelligenza e coraggio. In un mondo in cui la forza sembrava appartenere solo alle armi, alcune di loro seppero esercitare un’influenza più sottile, ma altrettanto decisiva.

Tra queste, Hōjō Masako, pur appartenendo a un’epoca precedente, rimase un modello di riferimento. La “monaca shōgun”, capace di guidare un clan e influenzare la politica del Giappone medievale, incarnava un ideale di fermezza e saggezza che molte donne del Sengoku fecero proprio. Nene, moglie di Toyotomi Hideyoshi, divenne una consigliera rispettata, mediando tra fazioni e mantenendo rapporti diplomatici cruciali per il marito. Una presenza silenziosa, ma determinante nella costruzione del potere di uno degli uomini più ambiziosi del periodo.

Accanto alle strateghe e alle patrone, non mancarono le guerriere. Tomoe Gozen, benché anch’ella appartenente al secolo precedente, rimase il simbolo immortale della donna-samurai: valorosa, leale e temuta. La sua leggenda continuò a risuonare nei racconti popolari del Sengoku, ispirando generazioni di donne che, in tempi di assedio o di guerra, impugnarono la naginata per difendere castelli, villaggi e famiglie. Molte di loro non lasciarono nomi nei registri ufficiali, ma il loro coraggio contribuì a mantenere in vita intere comunità mentre gli uomini combattevano lontano.


Il lato spirituale del Periodo Sengoku


Anche la religione, in quegli anni turbolenti, ebbe un ruolo ambiguo e spesso contraddittorio. Il buddismo si frammentò in una costellazione di sette, alcune pacifiche e meditative, altre bellicose e legate alle milizie monastiche. Come anticipato, i templi divennero centri di potere politico, rifugio per i perseguitati o veri e propri attori militari nel conflitto nazionale.

Nel frattempo, un nuovo credo attraversava il mare e approdava sulle coste del Kyūshū, il cristianesimo. I missionari gesuiti, come Francesco Saverio, portarono con sé non solo la croce ma anche il fascino dell’Occidente, con le sue armi, le sue conoscenze e i suoi commerci. Alcuni daimyō, come Ōtomo Sōrin, Arima Harunobu e Takayama Ukon, si convertirono, attratti tanto dal messaggio spirituale quanto dalle opportunità diplomatiche e commerciali che l’alleanza con i portoghesi e gli spagnoli poteva offrire. Nelle città portuali di Nagasaki e Hirado nacquero le prime comunità cristiane del Giappone, vivaci e cosmopolite, in cui si mescolavano lingue, culture e mercanzie.

Tuttavia, questa stagione di apertura durò poco. Quando il Paese, ormai pacificato, cominciò a cercare stabilità sotto il nuovo shogunato dei Tokugawa, la fede straniera divenne sospetta. La stessa rete di contatti e influenza che aveva affascinato i daimyō del Sengoku apparve ora come una minaccia all’ordine costituito. Così, all’inizio del XVII secolo, la croce fu bandita, i missionari espulsi e i cristiani perseguitati. Durante il Periodo Edo, il Giappone scelse di chiudersi al mondo, ma quella parentesi di curiosità e sincretismo lasciò un’impronta profonda, come una ferita sotto la pelle dell’identità nazionale.


I tre unificatori


Nobunaga, signore di Owari, fu il primo a comprendere che il Sengoku non si poteva vincere solo con la forza, ma con l’efficienza, la velocità e la modernità. In un’epoca in cui la tradizione dominava ancora il pensiero militare, egli trasformò la guerra in un’arte calcolata. Usò le armi da fuoco in modo sistematico, riorganizzò le truppe secondo modelli disciplinati e impose la logica del comando centralizzato. Con l’assedio dell’Enryaku-ji nel 1571, annientò i monaci guerrieri del monte Hiei, colpevoli di minacciare la sua ascesa, e successivamente schiacciò i clan rivali con una combinazione di ferocia, carisma e lucidità tattica.

La sua ambizione era smisurata: un Giappone unificato sotto un’unica bandiera, la sua. Il sogno, però, si spense nel 1582, quando il suo generale Akechi Mitsuhide lo tradì durante l’episodio passato alla storia come “l’incidente di Honnō-ji”. Nobunaga morì tra le fiamme del suo stesso tempio, lasciando dietro di sé un vuoto di potere e una leggenda.

A raccogliere la sua eredità fu Toyotomi Hideyoshi, un uomo nato contadino che, grazie al talento e all’intelligenza politica, scalò ogni gradino del potere. Hideyoshi incarnò la mobilità sociale estrema del Sengoku, non aveva lignaggio, ma possedeva visione. Proseguì il progetto di unificazione con pragmatismo e diplomazia, completando quasi del tutto l’opera del suo signore. Impose nuove leggi, censì i contadini per controllare il territorio e vietò loro di portare armi, il celebre “editto della spada” (katanagari), simbolo del suo desiderio di stabilità. Con esso sancì la separazione tra guerrieri e popolani, cristallizzando una società in cui ognuno aveva un ruolo preciso.

Non si accontentò, però, di governare, dato che volle espandere i confini. Lanciò, quindi, due campagne di invasione contro la Corea (1592–1598), sognando un impero asiatico sotto la sua guida. Le guerre divennero, però, un pantano, e la sua salute cominciò a declinare. Morì nel 1598, lasciando un’eredità fragile e un figlio ancora troppo giovane per regnare.

Infine, nel silenzio dopo la tempesta, emerse Tokugawa Ieyasu, il più paziente e calcolatore dei tre. Vecchio alleato e poi rivale di Hideyoshi, attese con freddezza che i suoi avversari si logorassero. Nel 1600, alla battaglia di Sekigahara, ottenne la vittoria decisiva che pose fine al secolo e mezzo di guerre civili. Tre anni dopo, nel 1603, ricevette il titolo di shōgun dall’imperatore, inaugurando lo shogunato Tokugawa.


Arte e cultura nel caos


Paradossalmente, mentre il Giappone bruciava, la sua cultura conosceva un periodo di straordinaria fioritura. La classe dei guerrieri non era composta solo da soldati, ma da uomini, e talvolta donne, educati alla poesia, alla calligrafia e alla meditazione. Abituati a vivere tra vita e morte, cercavano nella bellezza un modo per dare ordine al caos. La spada e il pennello, la battaglia e il silenzio, divennero espressioni diverse della stessa disciplina interiore.

È in questi anni che la cerimonia del tè (chanoyu), codificata dal maestro Sen no Rikyū, si trasforma in un rito filosofico. Ogni gesto, ogni tazza, ogni imperfezione raccontava un’idea di armonia fragile, ma autentica. La filosofia del wabi-sabi, l’eleganza dell’imperfezione, nacque proprio come risposta al disordine, un invito a scorgere la pace nella transitorietà.

Anche il teatro Nō, con le sue maschere immobili e i movimenti lenti, raggiunge nuove vette di raffinatezza, mentre l’architettura militare si sublima nei grandi castelli del Sengoku: Himeji, Matsumoto, Azuchi. Fortezze e residenze insieme, veri manifesti di potere e gusto estetico, in cui la funzionalità bellica conviveva con la ricerca della bellezza.

Persino le arti marziali si caricarono di valore spirituale. Lo zen permeava il modo di combattere, di accettare la sconfitta e persino la morte. Il guerriero ideale non vince solo sul campo, ma dentro di sé, domando l’ego e il timore.


L’eredità del Sengoku nella cultura pop


Con la vittoria di Tokugawa Ieyasu e l’inizio del periodo Edo, il caos del Sengoku lasciò, dunque, il posto a più di due secoli di pace e stabilità. Le strutture sociali, le gerarchie e le istituzioni emerse durante le guerre furono consolidate, mentre l’estetica e la disciplina dei samurai influenzarono profondamente la cultura e la vita quotidiana. Il Giappone aveva trasformato il tumulto in ordine, dimostrando che anche dal conflitto più sanguinoso può nascere una società duratura e un’identità nazionale forte.

Nessun altro periodo giapponese ha, inoltre, lasciato un segno così profondo nell’immaginario collettivo. Il Sengoku vive ancora oggi, trasformato in mito, tra film, anime e videogiochi. Il cinema di Akira Kurosawa, da Kagemusha a Ran, ha reso immortale la tragedia dei daimyō, fondendo Shakespeare e storia nipponica.

Nei manga e negli anime, il Sengoku è diventato leggenda, un esempio sono titoli come:

Ancora oggi, dunque, il suo richiamo persiste, perché racconta l’eterno conflitto tra distruzione e rinascita e la certezza che anche nel buio può germogliare una bellezza destinata a durare.

Appassionata di scrittura ed innamorata della cultura giapponese, trovo ispirazione sia nei racconti in cui mi immergo sia nei videogiochi che esploro. Attraverso manga, anime e la ricca tradizione artistica del Giappone, coltivo la mia creatività e la mia curiosità per mondi nuovi e avvincenti.

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