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AniKult: Perfect Blue, il perfetto esordio di Satoshi Kon alla regia

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Uscito nel 1998, il thriller psicologico targato Madhouse continua a ipnotizzare milioni di spettatori e a fare scuola nel mondo dell’animazione e del cinema.

Venticinque anni fa usciva Perfect Blue di Satoshi Kon nelle sale giapponesi, consacrando l’artista di Sapporo che, al suo film d’esordio, avrebbe poi continuato con altri capolavori come Tokyo Godfathers e Paprika.

L’opera ha guadagnato oltre settecentomila dollari soltanto negli Stati Uniti e nel Regno Unito e ha vinto, tra i tanti premi, il Fantasia Film Festival (dove è stato proiettato in anteprima nel 1997) come miglior film asiatico; ma i numeri non bastano a esprimere ciò che Perfect Blue ha rappresentato per l’animazione giapponese e l’arte orientale. Nonostante il budget modesto e i disegni che risentono a tratti di questo limite, il film di Kon è entrato prepotentemente nello scenario culturale fino a creare una propria estetica dai tratti riconoscibilissimi.

Ispirata liberamente al romanzo omonimo di Yoshikazu Takeuchi, la storia ripercorre le giornate di Mima Kirigoe, idol del gruppo Cham che lascia il proprio gruppo per diventare un’attrice. Da quel momento, la situazione precipita: tra stalker, fax minatori, siti internet bizzarri e ruoli cinematografici umilianti, la ventunenne ha allucinazioni così frequenti da non distinguere la realtà dalla finzione. A tutto ciò si aggiungono le morti misteriose e sempre più frequenti all’interno del suo staff.

La tensione è palpabile, e lo spettatore, tutt’altro che passivo, ha il compito di districarsi tra i piani spazio-temporali per risolvere il giallo. Gli eventi sono imputabili alla pazzia di Mima, o vi è un fondo di verità? Se sì, in che misura? Come vedremo, la risposta è tanto definita quanto ambigua. Ma la qualità del film non può che giovare da un binomio simile.

Una combinazione, tra l’altro, perfettamente espresso dalle musiche di Masahiro Ikumi: da Angel Of Love a Virtual Mima, da Cherish These Moments a Nightmare, le sonorità di Ikumi spaziano dal j-pop al dark ambient dei momenti più tensivi del film.

 


Un Giappone sospeso tra idol e otaku


Pur al servizio della trama, di non minore importanza è l’espressione di fenomeni culturali nel Giappone degli anni Novanta.

Il primo è quello delle idol, ragazze e ragazzi avvenenti che sfondano nel mondo dello spettacolo attraverso il ballo e la musica. Nato negli anni Settanta, avrebbe raggiunto l’apice del successo soltanto dieci anni dopo; ma Perfect Blue delinea il fenomeno alla fine del ventesimo secolo, quando la cultura idol iniziava a scemare. Non a caso la protagonista Mima sceglie di abbandonare le Cham per diventare un’attrice drammatica, in linea con la durata generalmente breve di carriere simili. Eppure sappiamo bene come il mercato non sia ancora morto: saranno proprio le Morning Musume a rilanciarlo con l’enorme successo Love Machine del 1999, avvenimento fondamentale nella storia del mondo idol.

Otaku, invece, è un termine nato negli anni Ottanta per indicare quei giovani appassionati di manga e fumetti che trascorrono gran parte del tempo in casa. Nerd negli Stati Uniti, accumulatore o disadattato in Italia, in Giappone ha caratteristiche peculiari fino a colorarsi di una componente culturale più spiccata. Inizialmente era connotato negativamente – basti pensare all’articolo di Tsutomu Miyazaki del 1989 sull’assassino appassionato di hentai, – ma col tempo è stato rivalutato grazie agli studi filosofici di Takashi Murakami e Hiroki Azuma. Il personaggio che meglio rappresenta questo ruolo è Me-Mania, ragazzo dal volto deforme che è disposto a battersi per difendere Mima dalle offese (e il cui ruolo è ben più centrale di quanto l’incipit suggerisca).

Un aspetto ben delineato da Kon nella sua opera è la mitizzazione che gli otaku attuano nei confronti delle loro idol preferite. Mima può apparire una stella agli occhi dei suoi fan, ma in realtà è un’adolescente come tante altre: una volta a casa, butta il cibo andato a male, dà da mangiare ai pesciolini, telefona alla madre, riscalda l’acqua del bagno, e soprattutto cade spesso nella tristezza, a dispetto di quanto i suoi balli appariscenti suggeriscano. L’espediente ha il duplice vantaggio di favorire l’empatia per la protagonista e di mostrare la sua doppia vita, tema centrale nella seconda parte della storia. Questa dinamica è perfettamente esplicitata da un cambio di frame nei primi minuti: Mima alza il microfono, e un istante dopo la vediamo in abiti casual mentre raccoglie uno squallido cespo di insalata dall’ortofrutta del supermercato.

D’altro canto, un gran numero di fan – goffamente diventato  “fans” nell’adattamento  italiano – fa di tutto per “impossessarsi” metaforicamente di Mima. Quando scoprono che è il suo ultimo giorno con le Cham, protestano fino a lanciare lattine di birra verso il palco, mentre Me-Mania, la presenza più disturbante, aggiusta la visuale per illudersi di averla sul palmo della mano. Sembra proprio che sia Me-Mania a conoscere Mima come nessun altro, realistica e al tempo stesso inquietante rappresentazione di come gli otaku, forse, nelle loro infinite tribolazioni riuscissero a guardare oltre le apparenze per scorgere l’essenza più autentica delle celebrità.

Infine, a fare da sfondo al lungometraggio c’è l’atmosfera vintage del Giappone di fine anni Novanta. Tra lettere, scaldabagno, Macintosh e telecamere monumentali, la nostalgia è sempre dietro l’angolo. Il tutto a generare un’ulteriore estetica dai forti richiami a dei tempi ormai passati ma sempre attuali nei cuori di chi li ha vissuti, che si somma a quella propriamente introspettiva già menzionata.


Dentro e fuori dallo schermo


Perfect Blue è un prodotto profondamente mediale non soltanto per la sua modalità di fruizione, ma anche per l’importanza che i media stessi hanno all’interno della trama: cinema, televisione e produzione multimediale costituiscono infatti l’innesco dal quale prende il via la nevrosi di Mima.

Tra il film in cui recita la ragazza, i telegiornali dell’HNN che espongono costantemente notizie di cronaca nera, è il Macintosh Performa col logo della Apple ancora color arcobaleno a fornire un’interessante chiave di lettura e spunti di riflessione circa il ruolo dell’identità online.  Infatti, se da un lato è con un misto di tenerezza e nostalgia che vediamo Mima non capire termini come “cliccare”, o definirsi un “genio del computer” per aver usato correttamente un url, dall’altro è interessante notare come il blog Il diario di Mima sia come un precursore dei moderni social network: le foto della ragazza accompagnate da brevi descrizioni rasentano la banalità se non addirittura il ridicolo. D’altronde, è esattamente così che i social dipingono spesso emozioni ben più rosee di quanto non lo siano realmente, tema centrale all’interno della pellicola. Alla base della storia di Perfect Blue vi è quindi un rapporto conflittuale tanto con le tecnologie quanto con i disturbi psicologici che scaturiscono da un utilizzo sbagliato delle stesse.

Ben presto la realtà dentro allo schermo e quella al di fuori cominciano a confondersi: la sceneggiatura del film in cui recita la giovane attrice va di pari passo con la vita di tutti i giorni; le morti sulla scena accompagnano quelle nello staff; Il diario di Mima riesce a prevedere in maniera spaventosamente accurata dettagli sulla vita della ragazza, nonostante l’autore non sia lei. Da gran genio qual è, Satoshi Kon sfrutta metaforicamente perfino il comparto visivo del film per veicolare il messaggio. All’inizio le scene del film sono distinte dal resto grazie alla cornice dello schermo, alle immagini disturbate e al suono ovattato; col tempo, però, una demarcazione simile viene persa, ed è compito dello spettatore (e di Mima) stabilire se quello che ha davanti agli occhi sia finzione oppure realtà – o meglio, una realtà che è a sua volta finzione narrativa.

Infine, la ragazza non riesce più a distinguere il lavoro da tutto il resto. «Questo sangue… è reale, vero?» chiede alla manager Rumi dopo essersi tagliata con i cocci di una tazza. O ancora: «E ieri era… era la realtà?» In un’altra occasione, chiama una sua collega col nome del relativo personaggio. Il discorso rassicurante che riceve da Erinon è nient’altro che materiale cinematografico; perfino lo stesso nome di Mima Kirigoe viene messo in discussione.

Ne deriva un concentrico gioco di specchi, che in alcune scene diviene perfino letterale. La protagonista si ritrova in un vortice di immagini, frasi e pensieri dal quale non riesce più a uscire, vittima di un copione che è costretta a ripetere in eterno; proprio come l’unica battuta da lei pronunciata nel film: «Si può sapere chi è lei?». Questa ricorrenza vale soprattutto durante i suoi risvegli, quando Mima perde i sensi e si ritrova ripetutamente nel suo letto, vittima di un tormento (reale o meno) che sembra non finire mai.

La vita della giovane è infatti degenerata in un incubo. Da quando ha lasciato le Cham, la protagonista si ritrova in un mondo ben diverso da ciò che immaginava. Basti pensare alla scena dello stupro, dopo il quale non sarà più la stessa. Rumi ha cercato con tutte le forze di dissuadere l’agente di Mima dal riprendere una scena simile, ma è stata la ragazza stessa ad accettare: «Per me va bene, Rumi. Dopotutto ho deciso di fare l’attrice, non posso tirarmi indietro, ti pare?» Eppure si sbaglia quando afferma: «Beh, mica mi violenteranno veramente, no?» In Perfect Blue, i traumi “finti” sono assimilabili a traumi autentici. L’idea è rinforzata dall’interruzione momentanea delle riprese: lo stupratore rimane sopra di lei per poter girare la scena successiva, e quel momento, da un certo punto di vista, non è finto, bensì autentico come tutto il resto.

A complicare il tutto vi sono i frequenti salti spazio-temporali, gli stessi che viviamo in piccola scala nel visitare un sito internet o nello scrollare la bacheca di un social network. È compito nostro ricostruire i pezzi per giungere alla conclusione, consci che la storia animata di primo livello quella di secondo livello dialogano a vicenda. Ogni elemento concorre a dipingere un disegno più grande – ironicamente, non è un caso che Satoshi Kon volesse inizialmente intraprendere una carriera da pittore. L’impalcatura complessa della trama e la sensazione di avere a che fare con un’opera che piano piano si scopre per mostrare sempre più dettagli fanno sì che l’esordio di Kon non  possa essere classificabile in un unico genere: dal thriller all’horror, dall’opera di formazione al giallo propriamente detto, Perfect Blue si appropria della stessa intertestualità che caratterizza la sfera mediale contemporanea.

La storia giunge infine a una conclusione razionale, pur lasciando alcuni aspetti alla libera immaginazione dello spettatore. E ha dell’incredibile come una singola, istantanea rivelazione richiami i tasselli precedenti per comporre una figura che è stata sotto i nostri occhi fin dall’inizio.


Paranoia e dissociazione


Gli effetti della confusione tra i due piani sulla sensibilità di Mima sono devastanti.

Innanzitutto, la ragazza ha il terrore di essere spiata. Tutto inizia da quando un otaku le grida di sbirciare nella sua stanza ogni giorno, a cui seguono telefonate mute, fax con messaggi distorti e soprattutto Il diario di Mima, che, come dicevamo, riesce a descrivere in maniera spaventosamente accurata dettagli sulla sua vita privata. La paura inconscia della protagonista è proprio che qualcuno (un otaku?, un membro del suo staff?, lei stessa?) riesca a raccogliere così tante informazioni su di lei da scorgere la disperazione dietro la patina di entusiasmo. Tutto ciò sembra lanciare una critica ai media e a tutti i dati che diamo loro in pasto giornalmente, fino a perdere il confine tra vita pubblica e privata.

Inoltre, la giovane non riconosce più la propria identità. Le varie versioni di Mima, fino a quel momento ben distinte, si compenetrano tra di loro fino a scomporsi in frammenti non più ricomponibili. «Un bel sorriso» dice l’agente Tadokoro quando la vede triste, perché nel mondo dello spettacolo bisogna nascondere le proprie emozioni e “cambiare faccia”, a volte letteralmente. Ecco perché la protagonista è spinta ad accettare ruoli che avrebbe preferito rifiutare e ad abbandonare la sua vera passione, nonostante la madre abbia cercato di appellarsi al suo lato più autentico – è interessante notare come il termine “Mima” sia la terza coniugazione del verbo italiano “mimare”. Ovviamente il primo punto dipende dal secondo, e viceversa; tutta la sua vita sembra svolgersi sotto i riflettori puntati, in un mondo popolato da maschere fisiche e metaforiche.

A turbarla di più è la sua identità passata, che si concretizza spesso davanti ai suoi occhi increduli. «Su, ammettilo che vorresti tornare a essere una idol» le dice dallo schermo del computer, per poi uscire e vagare nella sua stanza e tra le strade di Tokyo; il tutto con una leggerezza e leggiadria che Mima ha perduto nel diventare un’attrice drammatica. Basti pensare alle Cham, che, pur rimaste in due, hanno mantenuto il loro successo fino a entrare in Hit Parade con il loro nuovo singolo. Ma non è tutto oro quel che luccica, perché anche la vita da idol aveva i suoi problemi e, se la protagonista ha lasciato una carriera simile, è stato proprio per allontanarsi dall’uniformità fisica e psicologica, in cerca dello spessore maggiore che un ruolo da attrice le avrebbe conferito – o almeno così credeva. D’altronde, la spietatezza del mondo dello spettacolo viene espressa già nei primi minuti: tra nervosismi, orli scuciti e “attacchi” di Mima, tutto scompare nel passaggio al palcoscenico. La protagonista si trova quindi intrappolata tra un futuro orribile e un passato idealizzato a posteriori.

Nel frattempo, nel film continua a ripetere: «Si può sapere chi è lei?» Alla luce di considerazioni simili, la battuta pronunciata da Mima nel film acquisisce quattro significati distinti: chi è l’attrice che ha davanti agli occhi, chi è il responsabile degli omicidi, chi sono i miraggi che le compaiono davanti agi occhi, ma soprattutto chi è lei stessa, ormai dissociata dalla sua personalità più autentica.

Resta da chiedersi se perfino il finale non rappresenti un’operazione di facciata. Il nuovo stato di cose che scaturisce dalla rivelazione principale, infatti, potrebbe essere non una vittoria, bensì un tentativo di liquidare l’insegnamento che emergeva sempre più nel malessere – e con una battuta cinematografica a effetto, per giunta.


I’m feeling blue


Considerando il titolo del film, non sorprende che Perfect Blue operi un sapiente utilizzo dei colori per potenziare il proprio messaggio. Il blu è presente in quasi ogni scena – dai pannelli sullo sfondo al vestiario, i distributori automatici o gli schermi elettronici, – veicolando così la depressione della ragazza.

Il blu è associato anche all’acqua, e riferimenti simili non mancano di certo. Mima ha l’impressione di trovarsi in un mare in tempesta, e, una volta tornata da lavoro, ritrova la soddisfazione grazie alla semplice attività di dar da mangiare ai suoi pesci – almeno finché non le sarà precluso perfino questo. Ma il colore dell’inconscio rappresenta soprattutto il tentativo di lavar via i propri peccati. «Ti sei sporcata» la accusa la sua controparte idol; similmente, la manager Rumi vuole impedirle di girare la scena dello stupro, mentre l’otaku Me-Mania acquista svariate riviste contenenti i suoi nudi nel tentativo di salvare la sua immagine pudica.

La contrapposizione acquisisce perfino la forma più generale di bene e male. «Ormai tu non puoi più tornare in quella luce» continua l’idol. «D’ora in poi io sarò la luce e tu sarai l’ombra». Ecco perché i miraggi hanno un bagliore ultraterreno, proprio come gli schermi elettronici che continuano a ossessionare la protagonista. Quest’ultima prova a isolarsi immergendosi nell’acqua della vasca da bagno, ma quando prova a parlare emette soltanto suoni strozzati: nonostante i riflettori la mostrino a milioni di persone, il blu che la circonda non dà voce ai suoi bisogni nemmeno nei rapporti più intimi.

La ricorrenza del colore ha l’ulteriore scopo di potenziare quello opposto, il rosso. Il colore del sangue, dello sfondo de Il diario di Mima e del vestito che indossa nella scena dello stupro la spingono ad abbandonare la sua melanconia per combattere, a volte anche a costo della vita. Senza contare l’oggettivo risalto grafico di soluzioni simili. Ed è proprio in concomitanza del finale che i colori caldi acquistano il loro significato più alto: l’assimilazione tra i riflettori e la morte da un lato, il mazzo di rose rosse dall’altro dimostrano come nel cinema di Kon gli indizi si nascondano nel  minimo dettaglio.

#INBREVE

PERFECT BLUE IN BREVE: UN CAPOLAVORO PSICOLOGICO

L’esordio di Satoshi Kon alla regia esprime un racconto intimistico dalla forte vocazione sperimentale, dove lo sfondo è costituito dalle tendenze culturali nel Giappone degli Novanta (con particolare riferimento al mondo dei media). La confusione tra il piano virtuale e quello reale è espressa magistralmente, così come la parabola involutiva della protagonista Mima. A ciò si aggiungono le musiche di Yoshikazu Takeuchi e un sapiente utilizzo del colore blu, fino a potenziare il messaggio dell’opera. A fronte di disegni che risentono a tratti del budget limitato e una traduzione italiana a volte imprecisa, Perfect Blue continua a fare scuola nel mondo dell’animazione, del cinema e dell’arte in generale, dimostrando come ogni singolo elemento concorra a dipingere un disegno più grande.

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