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AniKult – 140 anni di Pinocchio: Italia e Giappone legate dai fili del dispettoso burattino

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Copertina Pinocchio

Una storia partita dalla Toscana di fine 1800 che, attraversata buona parte del globo, ha toccato e messo radici anche in Giappone. 

Febbraio 1883, probabilmente faceva freddo. Esce, edito dalla Libreria Editrice “Felice Paggi”, uno dei libri italiani più famosi nel mondo: Pinocchio. Facendo bene i conti, a febbraio di quest’anno sono passati 140 anni e come mai ci troviamo a parlare di questo piccolo capolavoro è presto detto. Oltre al già citato compleanno, Pinocchio merita di essere ricordato, non solo per il piccolo capolavoro che è, ma anche per il peso storico, culturale, pedagogico e identitario che questo gracile burattino ha sulle spalle. A dirla tutta, l’anniversario non cadrebbe nemmeno quest’anno. Pinocchio – nella sua primissima apparizione – uscì a puntate dal 1881 fino al 1882; dunque, non siamo qui a parlarne per festeggiare l’anniversario, ma per commemorare un personaggio

Prima edizione del romanzo di Pinocchio – Carlo Collodi

Cosa avrebbe pensato Collodi leggendo queste poche righe di presentazione? Lui che definiva la sua storia “una bambinata” e che probabilmente nulla aveva in mente se non cavarci qualche soldo. Probabilmente si sarebbe limitato a dire che l’autore aveva dato un risalto non cercato all’opera, che lui steso aveva pensato come una lezioncina per bambini discoli. Forse ancor più probabilmente la sua domanda sarebbe stata: “ma cosa ci fa la mia favoletta in una rivista che parla di Giappone? Ma soprattutto, un manga cos’è?”.

Forse Collodi, al secolo Carlo Lorenzini, non si sarebbe chiesto questo, ma sono sicuro che voi l’avete fatto. L’idea di questo Anikult speciale è nata quando, venuti a conoscenza dell’anniversario della prima edizione di Pinocchio, ci siamo chiesti se non fosse il caso di dedicare a questo storico personaggio un pezzettino del nostro spazio. Abbiamo così deciso di cogliere l’occasione sfruttando la prolifica produzione nipponica, che certo non poteva risparmiare l’italico burattino, con il quale sembra aver stretto una relazione precoce e inaspettatamente intima.


I due Pinocchi dell’animazione moderna


Sarebbe quasi divertente raccontarvi la storia dei due Pinocchio speculari dell’animazione giapponese come un racconto di faide, dissapori e prospettive divergenti. Probabilmente le prospettive e gli approcci contenutistici e narrativi sono l’unico modo in cui possiamo trovare un collegamento, di polare opposizione, fra le due opere. Non escludo che gli animatori e le produzioni delle rispettive serie abbiano pensato, almeno una volta, alla sottile competizione che si è portati a vedere fra queste due opere. Rimane comunque molto divertente vedere come Le nuove avventure di Pinocchio (樫の木モック – Kashi no Ki Mokku) e Bambino Pinocchio (ピノキオより ピコリーノの冒険 – Pinokio yori pikorīno no bōken) abbiano viaggiato su due binari narrativi paralleli puntando alla stessa meta. 

A sinistra il Pinocchio tedesco-giapponese, a destra quello targato Tatsunoko

Kashi no Ki Mokku, che vuol dire “Mokku della quercia” con un gioco di parole che all’incirca riporta a “la quercia dispettosa”, è una serie animata andata in onda dal 1972 prodotta dalla Tatsunoko. Pinokio yori pikorīno no bōken, che invece rimanda a qualcosa come “le avventure del piccolo Pinocchio”, è una serie animata, questa volta tedesco-giapponese, prodotta dalla Nippon Animation e la Apollo Films, andata in onda dal 1976. Possiamo già provare a ricostruire un legame: entrambe partorite dagli anni ‘70 ed entrambe composte di 52 episodi. Nel contenuto invece, i binari paralleli si vedono bene.


Parallelismi e opposizioni


La prima (Kashi no Ki Mokku) è concentrata sulla narrazione di un Pinocchio diverso, cupo e a volte così schiavo della disperazione da divenire maligno. Non è più figlio, bensì nipote di un Geppetto che lo accompagnerà in avventure che poco hanno a che fare con l’opera originale: fra vampiri, roghi e fucilate; tutto condito da un sottotesto che è invece legato ai temi del romanzo di Collodi: l’accettazione del diverso.

La seconda (Pinokio yori pikorīno no bōken) osa meno, dando forma ad una serie che, come la controparte, si discosta molto dall’originale. I protagonisti sono più di quelli che ci aspetteremmo. Infatti le avventure di Pinocchio e Geppetto sono accompagnate da un’anatroccola, Gina, pronta a fare le veci del (non pervenuto) Grillo Parlante. A confondere ancor di più il roster dei personaggi compaiono la gatta pigra e sovrappeso Giulietta ed il picchio Rocco (che più o meno consciamente strizza l’occhio al più noto Picchiarello di Walter Lantz).

Pinocchio si fa issare su di una croce sperando di divenire finalmente un bambino vero

La distanza è quindi consistente, sia fra le opere in esame che fra queste ultime e il romanzo del Lorenzini. La rivalità di cui abbiamo parlato – fattuale o presunta – rimane un punto focale, ricalcata anche nelle rispettive apparizioni italiane.

Le nuove avventure di Pinocchio sulla “Rai 1” del 1980, rispecchia con le sue avventure più crude e adulte la televisione di stato di quegli anni: seriosa e, in un certo senso, intellettuale. Bambino Pinocchio, invece, riflette un “Canale5” di una “Fininvest” (ora “Mediaset”) del 1982: una rete più giovane e giovanile ma spesso scialba e superficiale, che ben si adatta – sicuramente meglio rispetto alla “Rai” – ai temi anch’essi un po’ superficiali di questa serie. La netta separazione degli argomenti fra le produzioni è evidente da subito e la serie del ‘72 è sorprendente nelle tematiche e nelle scene che propone.

Fra le più brutali possiamo citare l’episodio in cui Pinocchio, sotto l’effetto di un incantesimo, si convincerà di poter rimpiazzare il suo scheletro ligneo con carne ed ossa, cavando il cuore ad un bambino vero. Altrettanto macabro l’episodio che lo vede disperato a tal punto da farsi issare su di una croce per tre giorni – ricordando, nel calvario, nell’aspetto e nel materiale un crocifisso Cristiano – senza bere né mangiare, sperando di raggiungere lo status di “vero” che lo ossessiona. 

Menzione va fatta anche della puntata con protagonista Pinocchio della serie animata Le più belle fiabe (アニメ世界の童話 – Anime sekai no dōwa).


Da burattino a burattinaio: il Pinocchio di Disney muove il Dio dei manga


Abbiamo visto quali vesti si è divertito a indossare il dispettoso burattino italiano a fine 1900. L’immagine di Pinocchio era, però, già ben delineata al tempo: proviamo a vedere in che modo si è arrivati a quella concezione. Il compito è arduo e sicuramente dovremmo partire dall’Italia – beh questo è certo! Poi, sempre secondo la più intuitiva delle ipotesi, dovremo spostarci al di là dell’Atlantico e, solo successivamente, tornare indietro attraversando buona parte del medio oriente o continuare dritti superando il Pacifico per arrivare finalmente nel paese del ramen e delle waifu. Vedremo più avanti alcuni elementi che fanno perlomeno dubitare di questo tragitto. Ma poniamo il caso che gli States siano una tappa obbligata della storia e cerchiamo di capire in che modo il Pinocchio di Disney abbia avuto un ruolo nella storia dei Pinocchi nipponici.

Pinocchio di Walt Disney uscito nel 1940

Per fare chiarezza è importante che renda nota l’esistenza di una trasposizione dell’opera di Collodi antecedente alle serie sopra citate. Difatti, con un peso ben diverso, a fare da apripista (ufficialmente) agli omaggi nipponici a questo personaggio c’è, nientemeno, che il Dio dei manga: Osamu Tezuka. Questo grande autore giapponese non ha mai fatto mistero della fascinazione per il mondo dei cineasti statunitensi, in particolare per il padre del lungometraggio animato: Walt Disney.

Due giganti a confronto insomma che, mai direttamente, hanno combattuto a suon di personaggi e trame che hanno fatto la storia dell’animazione e del fumetto. Proprio la fascinazione di Tezuka per il lavoro della Disney e degli animatori americani, in particolare i fratelli Fleischer, ha guidato il suo stile di disegno e il character design dei suoi personaggi. Nel caso specifico in oggetto, il grande amore di Tezuka per quello stile si nota molto chiaramente. Si tratta di un fumetto, breve ma incredibilmente curato, che racconta la storia di Pinocchio, nella sua più classica versione. Non mi riferisco però a quella del Lorenzini, bensì a quella del caro Walt; divenuta bandiera del personaggio in tutto il mondo.

Versione a fumetti della storia di Pinocchio scritta e disegnata da Osamu Tezuka, uscita nel 1952

Il Giappone prende anch’esso, fortissima, la febbre disneyana e nel 1952 (dodici anni dopo l’uscita americana) proietta nelle sale il Classico Disney di Pinocchio. Il giovane autore – e nonostante ciò, già notato dalla critica per i suoi La nuova isola del tesoro, Kenjū tenshi, Metropolis e Kimba, il leone bianco – si imbatte nell’ultimo capolavoro occidentale e ne rimane stregato; o perlomeno questo è ciò che potremmo pensare. La storia è spesso molto più complessa di quello che sembra, questa vicenda in particolare, e più in generale la parentesi giapponese di Pinocchio, ad ogni tassello che ci permette di comprenderla meglio riesce a sorprendere una volta in più.

Proviamo, quindi, a fare un po’ di storiografia: il film della Disney esce in Giappone il 17 maggio 1952 col nome di Pinokio e il fumetto di Tezuka è datato lo stesso anno, che coincide anche con il periodo in cui l’autore consegue la laurea in medicina. Quindi, convintosi ad omaggiare il dispettoso burattino dopo la visione in sala del film di Walt Disney, il giovane Osamu, in procinto di laurearsi, avrebbe studiato la trama, disegnato, curato il lettering e pubblicato il suo manga. In circa sei mesi.

Ovviamente è uno scenario inverosimile, che ci lascia immaginare questo autore talmente affamato di nuovi stimoli che il suo Giappone non gli bastava più e, già sotto l’incantesimo dei fratelli Fleischer, sia riuscito a reperire una copia del Pinocchio occidentale prima della sua uscita ufficiale. Magari non è la verità, ma è un modo interessante di leggere questo incredibile personaggio. 

Ci sarebbe molto altro da dire su questo piccolo gioiello della produzione di Tezuka, ma c’è il fratellino meno “plagiato” che merita anch’esso un, seppur breve, accenno. Perché nel ‘52 non è accaduto solo questo: a questa data risale anche l’uscita di quello che è ancora oggi il più famoso personaggio del Dio dei manga: Astro Boy (鉄腕アトム – Tetsuwan Atomu).

Indovinate un po’, anche lui strettamente legato ai fili del burattino-burattinaio Pinocchio. Per la precisione, il robot-bambino calca per la prima volta le pagine di un manga il 3 aprile del 1952. Ciò detto finora, ci dimostra il grande peso che la trasposizione di Disney ha avuto su questo autore. Questi ultimi dati ci permettono, però, una lettura diversa per Astro Boy. Danno infatti prova di una fascinazione di Tezuka per Pinocchio, precedente rispetto all’uscita nelle sale del classico dell’animazione occidentale. Ovviamente, non abbiamo alcuna certezza che Tezuka non abbia visto la versione di Pinocchio della Disney prima rispetto all’uscita giapponese, prendendo quindi ispirazione da quest’ultima piuttosto che dalla storia originale (così come è stato per il fumetto Pinocchio, da lui disegnato, di cui abbiamo parlato prima).

Astro Boy di Osamu Tezuka, uscito nel 1952

Una certezza l’abbiamo, Tezuka nutre un amore forte per il gracile burattino di legno ideato da Collodi e in Astro Boy lo dimostra appieno. In questa storia estremamente dolce e parimenti cruda, la parte del bambino non-umano accudito da un padre putativo viene affidata ad un piccolo robot.

Astro Boy, conosciuto in Giappone come Atom, è un robot dotato di grande forza, resistenza e incredibili poteri derivanti dalle tecnologie, anche militari, di cui il suo creatore lo ha dotato. Il padre-creatore di Atom, Unmataro Tenma, viene spinto nell’ideazione del robottino dalla grande disperazione dovuta alla perdita del figlio Tobio (riportandoci alla mente la più recente interpretazione occidentale di Pinocchio di del Toro). La storia di Astro Boy è fin dalle prime pagine una grande tragedia che vedrà protagonista il piccolo robot di tante disavventure. Alcune ispirate al romanzo italiano: la ricerca di sé stesso e il sentirsi bloccato nel paradosso di una società che ha bisogno dei poteri di cui è dotato, ma che discrimina la sua natura di androide.


L’origine?


Proviamo a capire come e con quali modalità il simpatico burattino abbia lasciato la carta stampata per approdare, sempre da disegno, sugli schermi. Basta fare una rapida ricerca per scoprire come risalga al 1935 il primo tentativo di animare “Pinocchio”. I registi sono Umberto Spano e Raoul Verdini e siamo ovviamente in Italia. Un solo problema: il film non verrà mai completato. Il primato del primo Pinocchio animato ci verrà soffiato – indovinate un po’ – dal signor Disney. Dovremo aspettare fino al 1971 per avere un film d’animazione made in Italy, con Un burattino di nome Pinocchio di Giuliano Cenci che comunque arriverà dopo Le avventure di Pinocchio (Priključenija Buratino) dei registi russi Ivan Ivanov-Vano e Dmitrij Babičenko; insomma una doppia sconfitta.

Se volessimo ampliare la classifica ad ogni apparizione del burattino (lungo, medio e corto metraggio), l’unico a salvarsi potrebbe essere il mediometraggio del 1911 di Giulio Antamoro – che ristabilisce il primo posto che avevamo appena perso. 

In realtà, le scoperte sulla storia delle interpretazioni di Pinocchio fa rivalutare questa versione: si potrebbe trattare non di un primo ma di un secondo posto per la produzione italiana. Stiamo parlando, infatti, di un autore nipponico, un regista, un animatore: Noburō Ōfuji. Colpevole, pare, della prima apparizione assoluta di Pinocchio nelle vesti di disegno animato. Personaggio poco citato nel panorama del cinema d’animazione ma riconosciuto come uno dei pionieri della scuola Giapponese.

Frame dal film “Kujira” di Noburō Ōfuji in competizione al Festival di Cannes del 1953


L’autore sconosciuto: Noburō Ōfuji


Questo autore appartiene ad un’epoca così lontana che le notizie su di lui sono, per usare un eufemismo, rare. 

Cercando bene, tra emeroteche digitali e avvalendosi dei potenti mezzi del web, Noburō Ōfuji acquista un volto e anche una storia. Sappiamo che è nato a Tokyo nel 1900 e che è stato un innovatore nel campo dell’animazione, forse al pari dello stesso Disney per visione e intraprendenza. Ciò di cui davvero non si hanno notizie è, ovviamente, il suo Pinocchio.

Di questo lungometraggio animato si sa davvero poco. Alcuni lo attribuiscono allo stile di animazione detta tradizionale o cellulare (ovvero una serie di disegni che si alternano in modo da creare movimento). C’è chi lo descrive, invece, come aderente alla produzione classica di questo autore e quindi prodotto con una tecnica molto particolare, che consisteva di silhouette ritagliate da fogli di chiyogami (una carta semitrasparente) poste su di uno sfondo retroilluminato dello stesso materiale. Questa tecnica, pressoché sconosciuta in occidente, è più simile alla stop motion che non all’animazione tradizionale.Ponendo come “vero” il primo caso, si tratterebbe del primo film d’animazione (tradizionale) con protagonista Pinocchio al mondo.

Innanzitutto è necessario confermare l’esistenza di questo lungometraggio, e ne abbiamo la “prova” grazie ad un articolo del Radiocorriere TV, il n° 17 del 1978, di Teresa Buongiorno. L’autrice utilizza quest’opera come esempio dell’antica animazione Giapponese e come uno dei punti di partenza dell’industria. Allora come mai non se ne hanno notizie? La risposta potrebbe trovarsi in un articolo de La Stampa, datato 1935 (la fine della produzione di questo Pinocchio risale al 1932). La notizia riporta la tentata produzione di un film con protagonista il burattino nostrano, stroncata però da lesi diritti d’autore.

Noburō Ōfuji intento a disegnare

Questo film potrebbe però nascondere un altro primato. Potrebbe trattarsi della prima produzione animata “collettiva” di sempre, in Giappone. In un periodo, il 1929, che aveva visto esclusivamente produzioni personali o familiari nel campo dell’animazione. Potremmo quindi azzardarci a dire che, nel caso in cui tale ricostruzione fosse aderente alla realtà, questo Pinocchio potrebbe aver sancito l’origine dell’animazione giapponese per come la intendiamo oggi. Forse dovremmo chiederci, quanto dobbiamo a questo autore cosi poco citato e apprezzato? O forse: quanto dobbiamo a Collodi e al burattino nostro connazionale?

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